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L’ULTIMO PETALO

Una margherita di racconti e poesie che si posano come petali sul prato della vita di Miriam Ballerini

 

Rileggere con il dovuto “puro occhio contemplante” come lo definisce Schopenhauer, L’ultimo petalo della scrittrice comense Miriam Ballerini, edito da Serel International, nel 2011, per coglierne le essenze estetiche ed artistiche è come raccogliere nelle stagioni floreali i petali delle cose. È l’epilogo dell’opera che l’autrice stessa così auto-commenta: «La margherita è stata sfogliata. Ci ha accompagnato, petalo per petalo in ogni racconto». La chiosa più pregnante la riportiamo alla fine delle nostre considerazioni. Come ci insegnavano i nostri maestri, come il compianto Antonio Motta, il titolo è l’opera. Così “L’ultimo petalo” rappresenta la destinazione del messaggio che l’autrice vuole consegnare al lettore. L’ultimo petalo è l’ultimo attimo che noi cogliamo tra le mani aperte dal fiore che si sfoglia, è la vita presente, nella sua labile e flebile nonché sconcertante semplice presenza. E questa vita è la continuazione ideale dell’opera d’arte, perché questo è il compito di ogni artista, come affermava Schelling, «ogni magnifico dipinto nasce quasi per la soppressione della muraglia invisibile che divide il mondo reale dall’ideale. È la finestra attraverso la quale appaiono completamente quelle forme e regioni del mondo della fantasia, che traspare solo imperfettamente attraverso quello reale». Il ruolo dell’artista è quello di cogliere il reale in tutti i suoi multiformi e molteplici aspetti, soprattutto, come dice Miriam, nella consapevolezza che «La vita non è bianca o nera; la vita è un arcobaleno steso a lenire lo sconquasso del temporale». Di qui va colto al volo il disegno dell’iride. Noi siamo abituati a vedere le cose in bianco e nero, o in grigio, avvezzi, come una volta, ad un’opaca e manichea televisione. Così i personaggi balleriniani in quelle cornici di paesaggi quasi surreali si rivelano come quei mitici “personaggi” pirandelliani “in cerca d’autore” nella soffusa atmosfera del “così è”, non nella sua assolutezza del contrasto bianco-nero, luce-tenebre, bene-male, ma nella ricchezza e nella varietà del “se vi pare” dei colori e delle sfumature dell’iride. Così i racconti e le poesie della Ballerini sono dei punti di vista che costituiscono delle visioni prospettiche di punti diversi della realtà. Sono un po’ come quelle monadi di Leibniz, che non hanno né finestre, né porte, ma ognuna guarda alla città dell’universo da un differente punto. E tanto per restare in tema riportiamo un famoso passo del grande filosofo tedesco: «ogni porzione di materia può essere considerata come un giardino pieno di piante, o come uno stagno pieno di pesci. Ma ogni ramo di pianta, ogni membro di animale, ogni goccia dei suoi umori è ancora un tale giardino o un tale stagno». Così ogni petalo rappresenta la realtà nella sua completezza e va visto in funzione degli altri, solo così si ha una visione completa del fiore. Questo è il significato profondo che si può cogliere in questa rosa di racconti e liriche della Ballerini. Così Rodolfo, Otello, Leonardo e gli altri protagonisti dei loro drammi e delle loro storie rappresentano l’uomo in tutte le sue proiezioni. D’altronde «Homo sum. Humani nihil a me alienum puto,» Terenzio docet. Non manca in Miriam Ballerini la capacità di cogliere i tratti psicologici dei suoi personaggi, in un sottofondo quasi sveviano, che si strugge nello smarrimento esistenziale. E vi vengono trattati tutti i temi sociali, politici, storici, economici, del lavoro, dell’emigrazione, della scuola, della famiglia, dell’integrazione come dell’emarginazione, al limite del realismo e della cronaca. E non mancano a proposito in questa rosa dei fatti che si ispirano a storie vere. Ci sono quindi delle tendenze veristiche non indifferenti nelle narrazioni della Nostra. Per mancanza di spazio riportiamo solo alcuni aspetti, tipo quello attualissimo della Shoah, corredato dalla bella poesia “Auschwitz”: «Quanto dolore / può contenere un uomo?/ Dalla punta dei capelli rasati, / ai piedi stanchi di camminare/ tra fantasmi col pigiama a righe./ Quanti ricordi può contenere un numero?» (p. 164). Si avvertono in questi versi un’enfasi ed un pathos straordinari. Oppure il tema, a me caro, dell’emigrazione, parallelo a quello dell’olocausto, nella realistica lettera del 1958: «Lavoriamo in segheria, mangiamo nella segheria, dormiamo nella segheria. All’interno ci sono delle baracche piene di buchi e di topi, dove stiamo con altri italiani. Non siamo trattati bene, anche se lavoriamo dalla mattina alla sera, fino a romperci la schiena. Ci chiamano mafiamann, uomini della mafia, e katzelmacher, fabbricacucchiai, per dire che vagliamo poco, ma anche perché facciamo tanti figli…» (p.73). Molto forte questo tema se si pensa che è contestualizzato in una regione del nord, e questo si intreccia con quello dell’extracomunitario, tanto toccato anche da Miriam nei suoi petali. Pensiamo al limite del primitivismo: «A volte vorrei fuggire, andarmene dove la civiltà non esiste. Farmi una capanna su un albero e starmene ben lontano dalla gente. Non te lo direi se non fossi ubriaco» (p. 139). Sono solo alcune delle numerose problematiche e tematiche enucleate. Concludiamo con la chiosa che Miriam stessa riporta nell’ “Epilogo”: «Abbiamo così appurato che la vita non è mai logica, razionale. Tanti ingredienti la compongono, molti ne alterano il sapore… Non siamo alla fine del nostro viaggio, ma solo all’inizio. Io proseguo, bastone alla mano, nel mio cammino verso l’altro. Quando si pensa di aver compreso tutto, una nuova storia sconvolge le nostre certezze». È quello che dicevamo all’inizio. L’ultimo petalo è anche il primo nell’alfa e l’omega che la vita ci serba. Vi è in queste parole una nota di nietzschiano irrazionalismo, che è anche vitalismo .

In tal senso l'autrice intende investigare il lato notturno dell'anima, l'oscuro mondo dei sogni, fatto di istinti e di forze biologiche primigenie e di tutti gli aspetti inquietanti del comportamento umano, che rimangono eterei ed immutati pur nella piena età del progresso, della scienza e del mondo globalizzato. Questa esplorazione fa vibrare le tonalità abissali di quell'iride che è la vita, risveglia atteggiamenti futuristici che paradossalmente si fondono con quelli arcaici, forze affettive, non razionali, che in un certo grado trasformano l'uomo in una creatura abbandonata e disponibile, nel suo mondo magico e surreale.

C’è il profondo richiamo all’eterno ritorno, a quella sorta di “coincidentia oppositorum” che si può raggiungere solo nell’attimo, perché l’attimo è un petalo di eternità.

  

 

Vincenzo Capodiferro

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"Fiori di serra"

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