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Cosa si prova rimanere dieci
minuti dentro a una prigione
da innocenti? Una scrittrice
lo ha fatto per raccontarcelo

di Maria Ausilia Gulino
Serel International Eeditrice pubblica
un curioso testo tra “finzione e realtà”

Un’esperienza del carcere dal punto di vista di una persona con la fedina penale pulita: un passo coraggioso intrapreso da chi ha la capacità di entrare in empatia con la gente e persino con gli spazi chiusi. Un coraggio e una voglia di “provare” strani, che di norma non attraggono il quotidiano vivere. Eppure qualcuno li ha avuti: a prendersi questa responsabilità è stata Miriam Ballerini, scrittrice di narrativa, che alle prese con il suo ultimo romanzo Fiori di serra (Serel International Eeditrice, pp. 226, € 13,00), ha raccontato come ci si può sentire dentro a una prigione, questa volta, non solo interiore.
Protagonisti del libro sono due giovani ragazzi che tentano il colpo di fortuna con una rapina in banca. Pseudoprotagonista, però, è anche l’autrice, che racconta la sua esperienza vissuta di soli dieci minuti tra le sbarre di una cella nella sezione femminile della casa circondariale “Il Bassone” di Como. Voleva provare sulla sua pelle le sensazioni della prigionia, per accostarsi «a vite diverse dalla nostra, per comprendere che si è uomini proprio nel momento in cui si sbaglia e la maschera cade», ci spiega lei stessa nella Prefazione. La storia comincia con una rapina in banca, fatta da due ragazzi tra i venti trent’anni. Lui, deciso ad andare fino in fondo; lei, volubile, si lascia coinvolgere. Entrati dentro, dopo una serie di circostanze che vanno a complicare le reali intenzioni di costoro, considerando che non sono poi così “competenti”, la giovane per un errore uccide un uomo. Mentre lui scappa, lei rimane a soccorrerlo sconvolta. Ovviamente la portano via in manette. Ed entra “dentro”.
Nel racconto non mancano le descrizioni psicologiche di tutti quelli che ne fanno parte, che tratteggiano pensieri e persino vuoti d’animo.
Quello che più risalta, e in qualche modo fa persino paura, è il coinvolgimento emotivo del lettore, che quasi si mette dalla parte del colpevole. Ciò che suscita questo testo è anche la compassione di chi ha commesso il reato, perché non lo ha fatto di proposito, perché si è lasciato trascinare, perché era debole e in preda al carisma del più forte. Ma questo può bastare per giustificare chi in ogni caso è andato contro la legge?
La Ballerini è stata chiara a questo proposito: «Ci si guarda intorno e le gabbie, tante anche se invisibili, appartengono a tutti noi. Si è prigionieri anche senza comprenderlo: chi della solitudine, della cattiveria, del quotidiano…
quante le sbarre che limitano il nostro vivere. Ma tutti, anche se siamo semi coltivati in una serra senza sole, possiamo diventare fiori e rinascere anche da un cumulo di pietre sterili. La vita non ha limiti: la vita non ha prigioni». Probabilmente ciò che dice può essere condivisibile, considerando che dopo aver scontato la propria pena si è comunque liberi, siano dieci anni di carcere, siano dieci anni di sofferenza interiore. Quello che conta è che l’errore si paga per poi tornare a essere liberi, nel cielo delle libertà intime, innanzi tutto. Solo che in ogni caso un uomo deve essere considerato tale e rispettato anche quando sbaglia, anche quando si trova in “gattabuia”.

Finzione e realtà
Raccontare la storia dei detenuti si può fare, ma bisogna prima liberarsi dal preconcetto, dal giudizio e dalla condanna. Scriverlo forse è più semplice che razionalizzarlo. L’autrice però lo ha pensato davvero, perché in prima persona è entrata in cella, dopo il permesso del Provveditorato e del Ministero della Giustizia. Anche se per poco tempo.
Bisogna dire però che entrare da innocenti è di gran lunga diverso che entrare da colpevoli, magari pentiti. Certamente coloro che si trovano a viverci hanno un cuore, una testa, una storia non decisamente diversa dalla gente comune, ma rimangono sempre diversi. Con uno scheletro nell’armadio incancellabile. Come quello di chi la prigione la vive nell’animo. I diversi, che una volta scontata la pena, tornano uguali di fronte alla legge proprio perché liberi, resteranno diversi sempre e comunque nella quotidianità e nelle menti di chi si ritrovano attorno. Perché la società vive di pregiudizi, di frasi fatte, di luoghi comuni, di limiti. Tutti elementi che nella realtà terrorizzano e nella finzione, invece, compassionano. Se da un lato umano ci spiace che la ragazza del romanzo sia stata vittima di un’ingiustizia prima di tutto morale, considerata la sua vulnerabilità, dal lato etico non ci sentiamo di non condannarla, perché anche se è stato un errore, un uomo, innocente (ricordiamolo), è morto: chissà se, dopo aver scontato il debito con la giustizia, riuscirà a estinguere anche la pena del rimorso, e diventare libera, dagli incubi morali ovviamente.

Maria Ausilia Gulino

(www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 15, novembre 2008)

 

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